Il concordato preventivo nella riforma: quando la crisi non è irreversibile

Per risolvere positivamente la crisi d’impresa ovvero per recuperare le potenzialità aziendali ancora presenti in situazioni di insolvenza non del tutto irreversibile, il legislatore favorisce l’utilizzo dello strumento negoziale del concordato preventivo, le cui domande di ammissione alla procedura, nell’ultimo decennio, hanno registrato un notevole incremento. Anche la riforma manifesta un peculiare favore per tale istituto, specie quando esso valga a garantire la continuità aziendale e, per suo tramite, ricorrendone i presupposti, riesca anche ad assicurare nel tempo una migliore soddisfazione dei creditori.

Il concordato cd. in continuità

La bozza di riforma della disciplina sulla crisi d’impresa incentiva il ricorso al concordato in continuità, che ricorre quando, vertendo l’impresa in situazione di crisi o anche di insolvenza, la proposta preveda il superamento di tale situazione mediante la prosecuzione (diretta o indiretta) dell’attività aziendale, sulla base di un adeguato piano che consenta, al contempo, di salvaguardare il valore dell’impresa e, tendenzialmente, i livelli occupazionali, con il soddisfacimento dei creditori.

La proposta liquidatoria è ammessa solo se essa si avvalga di risorse poste a disposizione da terzi (cd. nuova finanza) che amplino in modo significativo le prospettive di soddisfacimento per i creditori. Solo a questa condizione, infatti, il concordato, che rappresenta indubbiamente un vantaggio per l’imprenditore, che mantiene l’amministrazione dei propri beni ed è esposto a rischi più limitati sotto il profilo della responsabilità penale, diviene conveniente anche per i creditori, i quali otterrebbero, altrimenti (dal concordato), anche meno di quanto potrebbero conseguire dalla liquidazione giudiziale, in considerazione dei maggiori costi che la procedura di concordato comporta.

Procedura semplificata per il nuovo concordato

La procedura: 

Ripescando l’impianto normativo proprio della disciplina già vigente, il legislatore della riforma introduce alcune misure di semplificazione, dirette a rendere il procedimento più agile e più celere:

  • viene eliminata l’adunanza dei creditori,
  • qualora la proposta di concordato preveda la necessità di porre in essere operazioni societarie (come le fusioni, le scissioni, le trasformazioni), l’eventuale opposizione a tali atti deve essere proposta dai creditori nell’ambito del giudizio di omologazione,
  • viene favorita la risoluzione dei nodi interpretativi ed applicativi emersi dall’esperienza pregressa, introducendo previsioni concernenti il voto dei creditori, i rapporti pendenti, i finanziamenti interinali, l’affitto e la vendita dell’azienda del debitore e le relative condizioni, la fase esecutiva del concordato.

 La domanda:

L’art. 44 della bozza di riforma trova applicazione nei casi in cui:

  • l’iniziativa sia stata assunta dal debitore,
  • il debitore, destinatario di una domanda di liquidazione giudiziale, si sia voluto tutelare non limitandosi a chiedere di respingere tale richiesta, bensì instando per regolare da sé, col concordato preventivo (ovvero l’accordo di ristrutturazione), la propria crisi o insolvenza;
  • il debitore si sia limitato a svolgere la domanda di accesso, senza ancora depositare rispettivamente proposta, piano e documentazione completa, per il concordato o l’accordo, in ipotesi di volontà di far omologare quest’ultimo;
  • la domanda sia già completa della documentazione necessaria per l’accesso alla procedura.

In ogni caso, a garanzia della celerità della procedura e per consentire al debitore di fruire senza indugio degli effetti protettivi della domanda, il decreto col quale si concedono i termini può essere emesso senza previa fissazione di un’udienza.

L’art. 44 in esame prevede, in ipotesi di domanda cd. “in bianco” o “con riserva” (terminologia coniata dagli operatori con riferimento all’istituto disciplinato dall’art. 161, comma VI, Legge Fallimentare), la fissazione di un termine minimo (30 giorni) e massimo (60), con possibilità di proroga (di non oltre 60 giorni) confinata all’ipotesi di mancanza di domande di liquidazione giudiziale, al fine di scoraggiare un utilizzo abusivo del concordato come strumento di difesa (e differimento) dalla trattazione della richiesta di liquidazione giudiziale.

Con la concessione del termine viene nominato, a fini di sorveglianza, un commissario giudiziale, figura che entra anche negli accordi di ristrutturazione, ma solo se vi siano richieste di apertura della liquidazione giudiziale.

La revoca del provvedimento di concessione del termine, con conseguente cessazione della procedura, è previsto per i casi:

  • di frode ai creditori
  • grave mutamento delle condizioni
  • condotta del debitore manifestamente inidonea a una soluzione efficace della crisi grave inadempimento degli obblighi informativi.

Il decreto di revoca è emesso:

  • previa instaurazione del contraddittorio,
  • non è autonomamente reclamabile (in quanto di per sé determina solo l’arresto della procedura)
  • può essere emesso, con analogo effetto, ogni qual volta sia negata la stessa concessione del termine (ad esempio per mancato deposito dei documenti o assenza dei requisiti soggettivi di accesso).

Accesso al concordato anche senza previa procedura stragiudiziale (di allerta e composizione assistita della crisi)

 La possibilità che l’accesso alla procedura concordataria sia anticipato dallo svolgimento di una procedura non giudiziale di allerta e composizione assistita della crisi, in molti casi potrebbe far venire meno le condizioni che giustificano la proposizione di domande di concordato con riserva di successiva presentazione della proposta e del piano. La riforma non ha eliminato tale possibilità, anche tenuto conto che:

  • non sussiste una necessaria propedeuticità della procedura di allerta e composizione assistita della crisi rispetto a quella concordatari
  • è eccessivo bloccare i benefici dalla proposizione della domanda di concordato con riserva a chi, per le più svariate ragioni, non abbia potuto avvalersi dell’anzidetta procedura stragiudiziale.

Le classi dei creditori nel concordato preventivo

La riforma prevede, in alcuni casi, l’obbligatoria suddivisione dei creditori in classi, tenuto conto che:

  • il sistema maggioritario strutturato sui crediti e non bilanciato da criteri di tipo capitario (rectius, per ogni singola persona), presuppone l’omogeneità delle posizioni dei votanti, garantita dalla ripartizione dei creditori in gruppi omogenei;
  • la concentrazione dei creditori portatori di interessi differenti in un’unica collettività è contrario al principio maggioritario, che rinviene la propria legittimazione nella comunanza di interessi tra i componenti di un gruppo;
  • la vincolatività della decisione della maggioranza, verso la minoranza, non rinviene un’adeguata giustificazione (ad esempio quando l’esposizione debitoria dell’imprenditore sia in prevalenza nei confronti di istituti di credito garantiti da capienti fideiussioni personali dei soci o di altre società del medesimo gruppo, come tali incuranti della percentuale di soddisfazione loro garantita dalla proposta concordataria);
  • venga fissata la misura massima entro cui è consentito riconoscere il carattere prededucibile del diritto al compenso per i professionisti designati dal debitore, per limitare i costi della procedura e salvaguardare, nell’interesse dei creditori, la garanzia rappresentata dal patrimonio del debitore (ai sensi dell’articolo 2740 c.c.).

Le due tipologie di concordato preventivo

Per definire le diverse figure di concordato, il principale criterio distintivo è rappresentato dalla provenienza delle risorse impiegate per il soddisfacimento dei creditori:

  • è concordato in continuità aziendale (l’opzione che la nuova disciplina della crisi valorizza maggiormente in quanto finalizzata al recupero della capacità dell’impresa di rientrare, ristrutturata e risanata, nel mercato) quello che trae i mezzi destinati al soddisfacimento dei creditori, in misura rilevante, dai proventi che derivano dalla prosecuzione dell’attività imprenditoriale;
  • è concordato liquidatorio quello che consente il soddisfacimento dei creditori attraverso il ricavato della liquidazione del patrimonio.

Il concordato preventivo con continuità in azienda

Dall’articolato della nuova disciplina emerge che:

  • l’attività deve essere funzionale ad assicurare il ripristino dell’equilibrio economico finanziario in modo da assicurare che, una volta soddisfatti i creditori, l’impresa sia in grado di riposizionarsi adeguatamente nel mercato;
  • la continuità deve essere intesa in senso oggettivo (e non soggettivo), e quindi che ciò che rileva è che l’attività di impresa possa continuare anche a seguito della conclusione della procedura, prescindendo dall’identità dell’imprenditore;
  • rientra nel concetto di continuità:
  • la gestione diretta da parte dell’imprenditore debitore;
  • la gestione operata da un soggetto diverso dall’imprenditore debitore, in conseguenza della cessione al medesimo dell’azienda (ancora in esercizio o di cui sia prevista la riattivazione tempestiva) oppure in esito alla stipula di altri contratti quali l’usufrutto, l’affitto, anche se anteriori alla presentazione del ricorso, o mediante conferimento dell’azienda in una o più società anche di nuova costituzione. In tale caso, tuttavia, risulta necessario che l’affittuario, il cessionario e comunque il soggetto, diverso dal debitore, destinato a proseguire l’attività imprenditoriale assuma un preciso impegno in tal senso, garantendo, per almeno 2 anni, di mantenere in forza almeno il 30% dei lavoratori impiegati dal debitore al momento del deposito del ricorso nell’azienda o nel ramo d’azienda di cui è prevista la continuazione. In tal modo, si è voluto assicurare l’effettività della dimensione oggettiva della continuità, che costituisce il valore aggiunto in ragione del quale il concordato in continuità è privilegiato rispetto alle proposte meramente liquidatorie.

La dismissione di beni non funzionali all’attività. Nell’ipotesi ove il piano preveda, oltre che alla continuazione dell’azienda ovvero di suoi rami, la dismissione di beni non funzionali alla prosecuzione dell’attività, tale dismissione non incide sulla natura del concordato, proprio in quanto i beni oggetto di cessione sono quelli non necessari alla continuazione dell’attività, ed in quanto i creditori vengono in ogni modo soddisfatti in misura prevalente col ricavato della prosecuzione dell’attività di impresa. Pertanto, l’intento perseguito dal legislatore delegato, appare quello di: incentivare la conservazione del valore dell’azienda, favorendo la prosecuzione dell’attività d’impresa e la salvaguardia dei livelli occupazionali; evitare che una prosecuzione solo apparente dell’attività imprenditoriale (ad esempio limitata ad un ramo insignificante dell’azienda), consenta l’aggiramento della previsione secondo la quale il concordato liquidatorio è ammissibile solo ove si avvalga di risorse poste a disposizione da terzi che accrescano in modo notevole le prospettive di realizzo per i creditori. In tale prospettiva, i benefici della continuità spettano soltanto se la stessa sia reale e, dunque, se consenta un significativo incremento delle risorse destinate ai creditori. Per tale motivo, la disposizione pone una presunzione di prevalenza, che si considererà in ogni caso sussistente quando, secondo le previsioni del piano, i flussi di cassa attesi dalla continuità, per almeno 2 anni, siano generati da un’attività imprenditoriale alla quale siano addetti almeno la metà dei lavoratori in forza al momento del deposito del ricorso.

I proventi della continuità. Per dirimere i dubbi interpretativi insorti sotto la vigenza della Legge Fallimentare (r.d. n. 267 del 1942), il legislatore della riforme precisa che tra i proventi della continuità sono ricompresi anche il ricavato della cessione del magazzino e quindi di quanto prodotto dall’impresa, prescindendo dal momento, anteriore o posteriore all’inizio della procedura, in cui tale produzione è stata effettuata. Inoltre, il legislatore fornisce una risposta ai contrasti interpretativi insorti in relazione alla disposizione introdotta dall’art. 4 del d.l. 27 giugno 2015 n. 83, secondo cui, “in ogni caso, la proposta deve indicare l’utilità specificatamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”. Tale obbligo viene confermato, con la precisazione che l’utilità può essere rappresentata anche dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali col debitore o col suo avente causa, con ciò consentendosi di soddisfare i creditori non con denaro od altri beni, bensì con vantaggi certi ed economicamente valutabili.

Concordato preventivo liquidazione

Condizioni di ammissibilità del concordato (esclusivamente) liquidatorio

Il legislatore della riforma mantiene la figura del concordato (preventivo) liquidatorio, la cui alternativa risulta costituita dalla liquidazione giudiziale, tuttavia imponendo la sussistenza di due condizioni:

  • le risorse aggiuntive devono incrementare la misura del soddisfacimento dei creditori di almeno il 10% rispetto a quello assicurato da quest’ultimo;
  • il soddisfacimento non deve comunque essere inferiore al 20% dell’ammontare complessivo del debito chirografario.

Il concordato nella liquidazione giudiziale

L’istituto in questione si differenzia enormemente da quello, sopra descritto, del concordato preventivo, prendendo il posto del già vigente “concordato fallimentare”. In pratica tale istituto consente che la procedura di liquidazione giudiziale possa concludersi anche con un concordato, qualora la proposta sia supportata da ulteriori risorse, tali da rendere tale evenienza più vantaggiosa per i creditori rispetto all’ordinaria liquidazione.

Legittimati alla presentazione di una siffatta proposta, come già oggi per il concordato fallimentare, sono:

  • i creditori,
  • i terzi interessati
  • il debitore.